Lasciarsi attraversare



Si scaldava tenendo la tazza fumante in mano, era ancora presto per bere, ma non per trarre beneficio da quel gesto. 
La consolazione che ne traeva era come quando da bambino si teneva stretto l’orsacchiotto nelle notti in cui non riusciva a prendere sonno.
Quando le persone che più ami sono ad un migliaio di chilometri l’una dall’altra non puoi far altro che dividerti in due scontentando tutti, creando mancanze e qualche vuoto, frustrazione e malumori.
La malinconia se lo portava via in quel preciso momento compiendo tutti i percorsi del caso. 
Dapprima arrivava trafiggendolo, poi gli camminava dentro con i tacchi a spillo, molto probabilmente, perché giurava di sentire pure delle fitte qua e là. 
E comunque in quel momento stava male come fosse malato, sì, come fosse una malattia la mancanza, da curare con qualche pillola colorata dal suono onomatopeico. 
-Sto male dottore cosa mi dà?
-Prenda del “Vicinanz” una al mattino e una la sera, prima di coricarsi. Se dovesse essere poco rinforzi con del “Sospirol” dopo pranzo.
La sua compagna lo guardava, capiva il momento e tranne qualche piccolo atto di presenza, lasciava che quel momento se ne andasse com’era venuto, senza ingigantirlo volendolo fare parlare. 
Era peggio, lo sapeva già. 
Una separazione, un figlio, un lutto.
Provare a ricostruirsi un lavoro altrove, vicino all’unica persona che poteva dargli sostegno e aiuto, accettare di tener duro ogni giorno per riuscire finalmente a fare ciò che era dentro. Uno scrittore.
Lui era uno scrittore, uno che per dire le cose le doveva vergare su carta. Uno che ci riusciva come pochi, trasmettendoti tutto quello che riusciva non facendo altro che lasciare aperta la porta della propria anima, da cui sgorgava tutto quello che i suoi occhi avevano visto e tutto quello che aveva intuito, aveva studiato, aveva saputo, e ancora tutto ciò che non sapeva da dove veniva ma c’era e gli apparteneva.
Probabilmente la memoria arcaica che tutti possiedono, tramandata dagli avi. Oppure una specie di visione onirica in cui le cose gli parlavano e lui non faceva altro che ricordarsele e trascriverle.
Non sapeva, voleva credere che ci fosse qualche cosa di magico in tutto ciò e voleva ardentemente continuare a camminare verso ciò in cui credeva.
Per quello era lì e non altrove. 
Con una tazza in mano aspettando che il momento passasse e facesse il suo sporco lavoro. 
Il liquido si era raffreddato quel giusto po’ per poterlo bere. 
Lo bevve.
Era già a buon punto, come quando hai un attacco epilettico. 
Quell’interruzione nei circuiti per cui devi solo aspettare l’ondata che arrivi alla testa, dallo stomaco. 
Una volta passata, il senso di stanchezza è pesante ma è finita e torna tutto come prima.
Ecco, ora la spossatezza aveva rubato il posto alla malinconia. 
Si poteva continuare a cercare, a provare, a tentare, a tener duro, a sognare.
E a farcela.