Salima



Ricordo quel momento da bambina in cui rovesciavo la testa all’indietro per guardare le nuvole.
Era bellissimo perché le vedevo danzare nel cielo cambiando forma e colore.
Cercavo di vederci delle cose, degli animali.
Stavo così fino a che la nuca mi faceva male e fino a che i miei occhi non si riempivano di bianco, grigio e azzurro.
Poi era come se volassi lassù con loro e saltassi da una morbidissima spugna a un’altra, forse mi sentivo un angelo e forse lo ero davvero.
Ora il mio cielo lassù era quasi sempre minaccioso e cupo, sembrava accanirsi contro l’umanità disgraziata di cui ero circondata.
Ogni tanto pregavo. Io che ero e sono stata sempre profondamente atea.
Pregavo l’universo che ci facesse salvare anche quella vita.
Una vita in più, ti prego, una vita in più.
La mia casa non lontana dal porto sembrava messa lì apposta, sapevo subito quando arrivavano. Mollavo ogni attività per prendere servizio e attenderli.
Dopo più di una settimana di navigazione le imbarcazioni erano sempre ai minimi termini, i profughi passavano gli ultimi giorni a togliere acqua per non affondare.
Uomini, donne e bambini. Tutti.
Arrivavano stremati, disorientati, con gli occhi scavati dalla paura di non farcela e nel contempo quasi contenti per gli abbracci che ricevevano, che aiutavano a scaldarsi, e ai sorrisi che servivano ad accogliere, ad abbracciare col cuore.
Quella sera sapevo che stava per arrivare un barcone stracarico, mi preoccupava una donna incinta al nono mese con già le contrazioni in atto. Stavo di vedetta pronta con la mia valigetta in mano.
Piano piano le sagome dei gommoni della capitaneria di porto si avvistarono all’orizzonte.
L’atmosfera poco prima dell’arrivo era sempre un po' strana, sapevamo e non sapevamo.
Quello era, i punti di domanda non ci piacevano ma c’erano sempre.
Quali fossero le condizioni reali non le sapevamo fino a quando non mettevano piede a terra, il cibo che gli veniva dato bastava solo per qualche giorno e loro avevano sette otto giorni di navigazione in tutte le condizioni atmosferiche che il destino gli aveva riservato. Per non parlare di quello che subivano prima del viaggio vero e proprio.
Venivano nascosti, accatastati in case o appartamenti, e messi in attesa di essere imbarcati con tutti i rischi del caso di cui erano a conoscenza.
Poco prima della partenza venivano portati sulla spiaggia e dovevano imbarcarsi, pena la morte sul posto.
Molte vite venivano portate via su quella spiaggia prima ancora di affrontare il mare.
Arrivò il primo gommone, ero pronta.
La donna gemeva semidistesa su altri che le davano coraggio.
La portammo prima che potemmo al centro. Le sue condizioni erano critiche, era disidratata e provata.
Cominciammo le prime procedure per farla partorire, mancava veramente poco data la dilatazione.
Fuori dalla tenda sentii piangere, feci cenno ai miei colleghi e mi precipitai fuori. Era un bambino. Non avrà avuto più di 5 anni, aveva seguito la donna incinta, forse la madre. Mi occupai di lui avvolgendolo in una coperta e facendolo bere, cominciò a calmarsi avvolto dal mio abbraccio caldo. Ogni tanto sentivo urlare, questione di momenti.
Venne al mondo in quel tendone bianco.
Era femmina, in buona salute.
Tra il trambusto dell’emergenza, le urla, le flebo, il bambino mi si addormentò addosso.
Solo dopo, quando arrivò il nostro interprete arabo, venni a sapere la storia di Hana.
Doveva imbarcarsi con il marito ed il figlio, Jamal, la creatura che era crollata tra le mie braccia e che ora stava accanto alla madre, dopo essere stata rifocillata e scaldata.
S’imbarcarono solo lei e il figlio.
Il marito venne ucciso poco prima della partenza perché non voleva più imbarcarsi.
Gli tagliarono la gola senza pietà davanti a lei, noncuranti della presenza del bambino.
Il suo pianto disperato dopo giorni di patimento, l’inferno è in questa terra.
Gli occhi di Hana avevano il colore dell’ambra.
Ci era riconoscente, stringeva la sua creatura appena nata e con l’altro braccio cingeva Jamal che ancora tremava.
Come la chiamiamo?
Salima, disse Hana, che in arabo vuol dire salva.
Mi scese una lacrima, baciai Jamal, salutai tutti e cominciai ad avviarmi verso casa. 
Era notte.
Stetti sotto la doccia un buon quarto d’ora per trovare sollievo, pensavo a Jamal e a quello che aveva visto.
Così piccolo e segnato per sempre.
Uscii in terrazza per prendere una boccata d’aria.
Era una notte di luna, rovesciai la testa all’indietro in cerca di nuvole ma vidi solo stelle, cominciai a fissarle nella speranza che prendessero vita e che si mettessero a danzare per me.
Chiusi gli occhi e mi parve di vederle.


Foto di Elio Carrozza e Luca Daniele tratta dal libro "Anime salve"