"Io che amo solo te"



Avevi la gonna troppo corta ed una camicetta a fiori.
Le gambe appena abbronzate e solo un po’ storte ma piacevolmente svelte, nervose.
S’intuiva la tua voglia di andare di fretta chissà dove.
Dove ti portava la tua età di ragazza.
Ti guardavo da mesi. Abitavamo nello stesso quartiere ma tu eri di buona famiglia, figlia di un medico di fama.
Io ero solo figlio di un umile muratore, buono come il pane ma con la terza media.
Ti guardavo da mesi senza essere visto, facevo di tutto per non farmi vedere al bar che frequentavamo. Mettevo i dischi che piacevano a te nel jukebox cercando di non risultare patetico.
Lo facevo ogni tanto, mi piaceva guardarti mentre giravi la testa e la facevi andare a ritmo di rock non appena sentivi le prime note provenire dalla mia postazione solitaria.
Chissà se mi notavi, se apprezzavi almeno il gesto.
Alle volte mi pareva di sentire i tuoi occhi puntati verso la mia direzione anche se non mettevo niente e se la musica veniva da scelte di altri.
Avevo una passione per la musica, in modo tutto autodidatta avevo imparato a suonare la chitarra ed ero bravo, dicevano. Ci davo dentro dopo la scuola chiuso nella mia stanza insonorizzata con le scatole delle uova. Mia madre non ne poteva più e mio padre le diceva di avere pazienza, che ce l’avevo dentro e si capiva.
Adoravo sentire quelle parole venire dalla cucina, zittivano mia madre e nel contempo erano piene dell’amore e della pazienza di mio padre.
Con il tempo formai un gruppo, eravamo in quattro.
Avevamo trovato anche una cantina in cui suonare detta “il buco”.  Era più che una cantina, era una specie di magazzino finestrato nel quale avevamo anche sistemato un paio di divani ed una zona bar, alla buona.
Mi piacevi sempre e suonavo per te le canzoni d'amore di Endrigo e del mitico Elvis.
Una volta ci esibimmo ad una festa di Piazza e ti suonai "Love me tender", so che amavi quella canzone. Speravo di scorgerti arrivare dai portici con la tua gonna troppo corta e i capelli al vento ma quella sera tu non c’eri.
I tuoi diciott’anni anni forse ti avevano portata altrove.
Mi passavano davanti le tue amiche però, ammiccanti quel giusto per farmi capire che avevo la possibilità di farmi avanti se l’avessi voluto.
Erano le tue amiche, non eri tu.
Tu che forse non mi avresti visto mai se io non mi fossi fatto male quel pomeriggio fuori da scuola a due passi da te che chiacchieravi con un altro mentre passavo in bicicletta.
Ero talmente preso nel guardare chi fosse quel babbuino che andai a sbattere contro un palo della segnaletica stradale. Mollasti i tuoi libri per terra e ti trovai sopra di me intenta a chiedermi se mi fossi fatto male. Anche se avevo un bozzo in testa non da poco risposi che no, stavo benissimo, e tentai di darmi un tono alzandomi tutto sottosopra.
Benedii quel palo che ti aveva fatto venire da me.
Lo battezzai il "palo dei miracoli".
Da quel giorno cominciammo a parlare fuori da scuola, del mio anno di maturità, dell’estate, di musica, di tutto.
Eri semplice oltre che bella, e la tua semplicità mi piaceva più della tua bellezza.
T’illuminavi tutta mentre mi parlavi dei tuoi progetti, dei tuoi sogni.
Io ti lasciavo parlare perché eri un fiume di parole, il contrario di me intento nella contemplazione e nell’ascolto.
Mi decisi a chiederti di uscire e tu accettasti subito, ero più emozionato di te. Non so dove trovai il coraggio di farlo, avevo paura di non essere alla tua altezza.
Anzi non lo ero.
Tu bella, intelligente e ambita da tutti. Io un ragazzo sveglio ma umile, buono a suonare, bravo a scuola.
E basta.
Non potevo offrirti niente tranne il mio amore.
Mi preparai all’incontro come un pugile peso piuma al suo primo match con uno più forte di lui.
Tremavo di paura.
Altro che femmine, mi cambiai venti volte girando gli stessi vestiti almeno tre volte. Il risultato non cambiava. Decisi che mi stavano bene i jeans logori e la camicia blu.
Ti vidi sul ponte mentre camminavi per venirmi incontro.
Eri bellissima, un sogno.
Un vestito bianco finalmente non troppo corto svolazzava intorno a te, i capelli al vento come sempre.
Il sorriso, quando mi hai visto. Aperto. Accogliente.
Non posso dire cosa avevo nello stomaco, so solo che ti venni incontro e ti presi per mano.
Era fredda, la scaldai.
Cominciammo ad andare, senza meta. Non importava.
Il tuo sguardo non lo dimenticherò mai.
E’ lo stesso che hai ora quando mi guardi, dopo trent’anni di strada fatta insieme.
E la tua risata è la musica più bella che l’universo abbia mai creato.
Apposta per me.