Non so dire di no



Di ritorno imboccai la solita strada, talmente conosciuta da permettermi di vagare tra i miei pensieri quasi come potessi estraniare il mio essere e camminarci dentro come in una scena di un film.
Lessi il pericolo di questa condizione quando mi rimpossessai del mio io cosciente e per un attimo non seppi esattamente dove mi trovavo.
Una sensazione davvero spiacevole, ma ebbi la consapevolezza che se volevo potevo sdoppiarmi con facilità estrema. La cosa mi galvanizzò e m’impaurì allo stesso tempo. Provai una serie di emozioni contrastanti tra loro, dal sentirsi divina al sentirsi già all’inferno, passata a miglior vita ma tra le fiamme, di sicuro.
Non sono mai stata una brava bambina.
Ne ho combinate parecchie, ho avute molte relazioni prima di tutto, anche con uomini sposati.
So che non si deve, lo so.
Ma non so dire di no se mi piace qualcuno, non so dire di no.
Poi questo sdoppiarsi avviene se bevo un po’ di più, non fino all’ubriacarmi ma al limite di esso, quello stato in cui ridi o piangi, c’è chi piange.
Io rido.
Forse non dovrei mettermi alla guida, dovrei  fermarmi a casa di qualcuno, ma voglio sempre rientrare a casa mia.
Voglio rintanarmi tra le mie mura rassicuranti.
Fuori mi sento nuda.
E fragile.
Ancora di più se sono in quelle condizioni in cui rido e dico cose che poi rimpiango.
La verità per esempio.
Mi sono giocata amici per questo.
Mi hanno detto che se me li sono giocati era perché volevano comunque andarsene, forse hanno ragione, ma alla fine io sono sola e loro no.
E questa condizione che abito è alla fine ciò che merito.
La solitudine.
Non è poi così malvagia. Vuoi mangiare? Mangi. Vuoi leggere fino a notte fonda? Lo fai.
Vuoi passare la domenica in pigiama? La passi. Senza nessuno che ti dica che ha fame e di cui ti devi occupare, senza sentire lamentele o adattarti a cose che non faresti se potessi scegliere da sola.
Questa è libertà.
Forse questa è la libertà.
Credo.
E questa libertà me la sono conquistata sulla mia pelle, andandomene sempre.
Scegliendo sempre quello che mi avrebbe fatto soffrire appositamente per poi lasciarlo.
Di chi mi amava davvero avevo paura.
Non mi so girare nelle pieghe di un innamoramento subìto.
All’amore non voglio più arrivare, non voglio più sentirmi così bene da desiderare un figlio, non voglio più fare progetti con qualcuno che prima o poi mi lascerà.
Fa troppo male. E’ quel male che è simile alla morte, o forse lo è.
Morire dev’essere così.
Quello spegnersi dentro, non c’è differenza, io sono già morta anni fa.
Ecco, lì io non ci arriverò più.
Una delle poche cose che mi sono promessa da sola e che manterrò, per il resto mi sono sempre mentita e me le sono raccontata anche bene.
Mai più amore nella mia vita ma esperienze di corpi che si muovono per darsi del piacere, poi tanti saluti e qualche grazie.
Nessun attaccamento, nessun doppio appuntamento.
Fossi risoluta così anche con mia madre avrei risolto, invece vivo della sua approvazione, vivo del suo cenno con la testa.
Faccio di tutto per compiacerla in un balletto che pare più la morte del cigno a volte, il cigno sono io.
Questo grosso elegante pennuto bianco che muore, dando fine a tutta la sua eleganza e candore.
A volte mi è sfiorata l’idea di fare la fine del cigno e con eleganza andarmene da questa terra, poi non trovo il coraggio mi prende l’attaccamento alle cose, desisto.
Ma un pensiero resta.
Poi, dicevo, sono già morta anni fa, dentro.
Ciò che resta di me è un bell’involucro dalle gambe lunghe,  gli occhi verdi e i capelli dorati.
E questo fa di me un bel cigno.
Un cigno che gioca a dadi con la vita.
Ma ciò che sono io è già da qualche altra parte, non è solo, è con chi l’ama anche con i suoi complicati difetti e ama anch’essi, sa del suo sdoppiarsi e lascia che un corpo vaghi gettando i dadi e scommettendo al poker.
Lascia che il cigno canti il suo dolore, lascia che rida da ebbro, lascia che torni nelle sue mura rassicuranti.
Ciò che mi muove e che se ne va a volte, è amato.
Il cigno muore, io no.